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giovedì 18 giugno 2009

Non è una novità

Massimo D'Alema sostiene che "se qualcuno ha il coraggio di dire che manovro inchieste giudiziarie, lo denuncio perché è un mascalzone e un bugiardo".
Io dico che "mascalzone e bugiardo" è lui. Lo dico io ma lo pensano tutti gli italiani.
Massimo D'Alema non ha mai vinto una elezione. Non conosce il metodo democratico. La sua ascesa al potere è costellata di manovre di Palazzo, di operazioni dietro le quinte. È stato così nel 1994 contro Berlusconi, è stato così contro Prodi nel 1998.
Appare così anche oggi perché, in questa storia ci sono, diciamo, troppe coincidenze e troppe allusioni.

Vorrei ricordare un articolo comparso su Panorama l’8 giugno del 2000 con il titolo “Inchieste dimenticate, retroscena della tangentopoli pugliese” a firma di Maurizio Tortorella.
In quel servizio, mai smentito e mai querelato, si ricostruivano i retroscena che precedettero l’entrata di un altro magistrato barese, Alberto Maritati, in politica con il centro sinistra.
Anche allora c’era di mezzo un cosiddetto re delle cliniche e della sanità pugliese, il famoso Francesco Cavallari, detto “il re delle case di cura riunite”, un piccolo impero della sanità privata, con 4 mila dipendenti. Cavallari si era pentito e aveva fatto il nome di molti politici, tra cui D’Alema.
Al pm Maritati, il 19 settembre 1994 aveva detto: “Non nascondo che in una circostanza particolare ho dato un contributo di 20 milioni al partito. D’Alema è venuto a cena a casa mia, e alla fine della cena io spontaneamente mi permisi di dire, poiché eravamo alla campagna elettorale 1985, che volevo dare un contributo al Pci”.
L’accusa era stata ripetuta il 7 ottobre.
Gli inquirenti avevano chiesto a Cavallari i riscontri: “Quella sera, con D’ Alema, eravamo presenti in tre: io, il mio cuoco Sabino Costanzo, e il nostro amministratore Antonio Ricco, che era in grande rapporto d’amicizia con lui”.
Erano però passati troppi anni dal reato, si era già in zona prescrizione e il gip Concetta Russi, su richiesta conforme del pm Maritati, decise il 22 giugno 1995 per l’archiviazione.
Con queste parole: “Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti, e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci”. E aveva aggiunto: “Con riferimento all’episodio riguardante l’illecito finanziamento al Pci, l’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato”.
Un banale episodio di finanziamento illecito dei partiti che però passò sotto silenzio. Neanche una fuga di notizie fino al pezzo su “Panorama”. Quei mesi che passarono tra l’apertura dell’inchiesta e la sua inevitabile archiviazione salvarono D’Alema da un processo.
E nel 1999 quando D'Alema divenne premier il pm Maritati diventò sottosegretario agli Interni. Qualcuno malignamente collegò le cose e ieri anche questa circostanza è tornata a galla, dato che la contiguità politica con gli ambienti giudiziari baresi per D’Alema e per il centro sinistra non è di certo un mistero. Né una novità.
Per carità, nulla di penalmente rilevante,..........solo intrallazzi.

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