Non mi sento troppo attirato da questo tam-tam sul dialogo e, una delle ragioni per le quali non conviene prendere troppo sul serio l'attuale revival di discussioni sulle «riforme costituzionali» è che le trattative sulle riforme sono come i negoziati internazionali: non portano a nulla se l'uno o l'altro dei protagonisti della trattativa è debole e diviso al suo interno. Questa è la situazione in cui versa il Partito Democratico e questa realtà rende il dialogo poco efficace e inaffidabile.
La conclusione del congresso di quel partito non lo ha ricompattato e stabilizzato. Nonostante gli sforzi di Bersani, si fatica a intravedere una linea chiara.
Se Bersani dice una cosa qualsiasi, gli esponenti della minoranza lo rimbeccano immediatamente sui giornali. Il Partito democratico è preda di una specie di «congresso permanente» che loro chiamano democrazia.
Questo avviene anche nei partiti di governo ma, siccome questi sono tenuti insieme dai dividendi del potere, al momento delle votazioni trovano sempre delle convergenze.
A questo scenario si aggiungono le elezioni regionali a marzo.
In Lazio il PD non ha ancora trovato un candidato da opporre a una sfidante fortissima come Renata Polverini, in Puglia la questione Niki Vendola ne sta da tempo logorando l'immagine. La Campania è dta per persa mentre Piemonte e Liguria sono in bilico.
Una sconfitta del Pd testimonierebbe la buona salute di cui continuano a godere i partiti di governo e la malattia che attanaglia il maggior partito di opposizione.
La malattia, a mio modo di vedere, si chiama crisi di identità.
L'amletico dubbio è: rompere con Antonio Di Pietro e allearsi con l'Udc (peraltro determinante in molte regioni) adottando con decisione quello stile di opposizione pacata e responsabile che è nelle corde di Bersani o perseverare in un’alleanza che allontana i moderati ma è fortemente sostenuta dalla minoranza del partito?
Mettere fine all'alleanza con Di Pietro significherebbe attirarsi gli strali, e le consuete accuse di tradimento, di quei mezzi di informazione che campano sull’antiberlusconismo radicale.
Come sempre, quando un partito è tirato per la giacca in direzioni opposte, a prevalere, almeno temporaneamente, è il «centro», in questo caso rappresentato da coloro che ritengono conveniente tenere il piede in due staffe: corteggiare l'Udc e non spezzare il rapporto con Di Pietro.
Ma in politica quelli che tengono il piede in due staffe rischiano molto: rischiano di essere considerati da chi li osserva «né carne né pesce».
Sia per le riforme che per le elezioni regionali, questa è la condizione peggiore che si possa immaginare.
Le riforme infatti necessitano almeno di un anno di trattative e la politica che non dà una chiara identità al partito lo rende non affidabile.
Alle elezioni regionali rischiano di presentare una coalizione in grado di vincere ma non di governare e i cittadini hanno ancora in memoria l'ultimo governo Prodi. Ha vinto ma non ha potuto governare.
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2 commenti:
la cosa piu' probabile e' nefasta, e' che alle prossime elezioni regionali, ci troveremo dinanzi a differenti coalizioni in differenti regioni, a seconda delle piu' spietate logiche clientelari e di campanile.
Il problema è che oggi tutti fingono di scandalizzarsi di Mastella, ma si comportano TUTTI allo stesso modo.
che schifo.
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